Prima di incominciare a condurre il Cerchio di Condivisione
non avevo idea di quali potessero essere le questioni che potevano sorgere
nell’organizzare questo tipo di gruppo . Mi dicevo che un gruppo del genere avrebbe potuto interessare pochissime persone a Milano, soprattutto ero scettico
rispetto a come spiegare un gruppo del genere alla gente. Non è infatti un
gruppo in cui si “fa” qualcosa, in particolare, non è un gruppo di Yoga o un
gruppo in cui si spiega una qualche tecnica terapeutica particolare. E’ un
gruppo in cui si aiuta la gente ad esprimersi, ad osservare e ad accogliere
delle parti di sé, a condividere, ad ascoltare, se stessi e gli altri, a
rimanere nel momento presente. Personalmente, non appena sono entrato in contatto con
questo genere di attività ne ho subito colto la grande importanza.
Ho frequentato il mio primo cerchio di condivisione nel 2008 a Padova e l’ho seguito
per i seguenti 2 anni. Dopo un cerchio mi sentivo sempre in grande forma,
magari anche stanco, ma di quella stanchezza sana, come se fossi stato ripulito.
Dopo essermi svuotato delle mie tensioni, avevo immagazzinato nuova energia,
energia fresca, e chiarezza mentale. Godevo di questo beneficio in maniera
forse un po’ ingenua, senza spiegarmelo, ma mi nutrivo di questo, da semplice
fruitore, facente parte del gruppo. Godevo dell’essere parte di questo cerchio ed ero
grato di aver trovato una cosa così particolare. Capivo che era una cosa utile,
ma non mi spiegavo il perché.
La grande consapevolezza è arrivata dopo un viaggio in
Brasile. Qui sono entrato in contatto con diverse realtà e ho potuto vivere in
prima persona cosa significasse, per un periodo di tempo limitato, vivere completamente in comunità e in un ambiente permeato dallo spirito della
condivisione. Solo qui mi sono reso conto di cosa volesse dire “condividere” davvero.
Certo, ognuno aveva la sua tenda ed il suo spazio, ma per il resto del tempo, nel
gruppo che ho frequentato in Brasile, tutte le altre attività si organizzavano
ed espletavano insieme. Più di tutte le altre cose, le attività fondamentali di
questo gruppo di persone erano cucinare insieme e mangiare insieme. Prima di
mangiare si faceva un grande cerchio, ci si armonizzava, e si cantava insieme.
Poi chi aveva qualcosa da dire lo diceva. Si davano le comunicazioni importanti
e chi aveva qualcosa da condividere condivideva. In più si utilizzava il
“bastone della parola”, metodo utilizzato dai nativi americani e che facilita la
condivisione.
Quando c’era la fila per andare a prendere da mangiare
notavo che dentro di me qualcosa mi diceva: “Devo tagliare la fila o rimarrò
con meno cibo! Ecco, ho fame e adesso devo aspettare che tutti arrivino per
mangiare…cazzo! Ma quanto ci mettono questi a cucinare, FAAAME! EEbbravo questo che si mette davanti a me nella fila” Quando ho
cominciato ad osservare questi miei pensieri, mi sono reso conto di quanto poco
ero abituato a condividere. Mi sono reso conto che fin da quando andavo a
scuola non ho fatto altro che cercare di cavarmela in ambienti in cui se non
entravi nella competizione in qualche maniera non sopravvivevi, o rimanevi
indietro (ergo rimanevi senza cibo = pericolo di morte). Mi sono reso conto di
quanto tutte le persone che mi hanno accompagnato durante tutta la vita avevano
completamente eliminato la mentalità della condivisione. Non la consideravano neanche “una modalità fallimentare di
vivere”: non la consideravano proprio, non la consideravano più.. Questo perché
ci hanno sempre insegnato che “Fidarsi è bene e non fidarsi è meglio”, che
l’uomo si è evoluto per “selezione Naturale” del più forte rispetto al più
debole e che per trovare una buona definizione di chi uno sia, bisogna vedere
cosa ha ottenuto rispetto agli altri.
Condividere, prendere il proprio posto in un gruppo in cui
tutti si ritrovano, in cui tutti si sentono liberi di appartenere, e in cui
tutti sanno che basta anche solo un minimo contributo per far parte di qualcosa
di grande, creato dal gruppo (che come si sa, è più della somma delle sue parti)
era qualcosa che nella mia testa non esisteva. Era una fiducia ormai estinta di
un passato che non avevo neanche mai pensato di andare a cercare nei libri. Un
gruppo di persone che sanno che sono unite da un filo invisibile, un
denominatore comune che ha a che fare con qualcosa che sta dietro le quinte
della nostra realtà, che è Inconoscibile, di cui tutti facciamo parte, ma le
cui manifestazioni diventano chiare, evidenti, solo se si hanno gli occhi per vedere.
Un gruppo di persone che, proprio per queste ragioni, per queste sensazioni, sentono
di dover stare insieme e volersi bene, era davvero quello che la mia anima cercava da tanto.
Dopo aver vissuto una realtà del genere in una maniera così
forte e così chiara, mi sono chiesto come sarebbe stato possibile (ri)portare
questo modello, questa mentalità, questo modo di vivere, di comunicare, e di
agire nella vita, anche in posti (come la mia città per esempio) dove questa
mentalità era ormai sparita. Spostandomi, sempre in Brasile, da una realtà
comunitaria provvisoria stanziata in una località rurale, ad una realtà
semi-comunitaria stanziata però in una città, ho visto come, una volta tornati in
una grande metropoli, le cose, per un gruppo di persone che aveva intenzione di vivere
seguendo la logica della condivisione, si facevano molto più complicate. Ognuno
aveva i suoi orari, ognuno aveva i suoi interessi ed i suoi gusti. Non era più
possibile comprare il cibo tutti insieme, perché non era possibile mangiare
tutti insieme, e quindi non era neanche possibile organizzarsi bene per essere
tutti d’accordo anche solo per una cosa così semplice come il cibo. Questo mi
ha fatto riflettere molto sulla possibilità di importare la mentalità di
condivisione in un luogo, come le città, dove ognuno bada a se stesso, dove il
tempo sembra scorrere più veloce, dove ci sono degli orari, e dove non c’è
quell'armonia di fondo che facilità il processo comunitario e l’ascolto
consapevole di se stessi e degli altri.
Essendo le persone della città (ma allargherei questa condizione anche a
molte più persone che vivono quest’epoca in cui regna sovrana la mentalità
della competizione) molto più condizionate da tutto quello che le circonda, e
quindi più ostacolate nel processo che può portare a sentire l’unità laddove si
vede solo divisione, mi sono chiesto da dove bisognasse partire per cominciare a
ri-instillare nelle persone il senso di comunità, il senso di appartenenza, la
voglia di condividere e di sentirsi tutti fratelli. Dove andare a parare, quindi, per creare una convivenza armonica e civile tra le persone se anche solo una
cosa così semplice come quella di “mangiare insieme” diventa un problema?
Forse
la soluzione sarebbe stata partire dalla base, dal cominciare con le dinamiche
di interazione, le dinamiche di ascolto di se stessi. Proprio allora sono arrivato a comprendere l’essenza dei
gruppi di condivisione. Mi sembrava che questi gruppi, rispecchiassero questa mia voglia di
instillare il valore della condivisione ad un livello base, partendo proprio
dall'osservazione di se stessi. Credo sia inutile infatti, e anche questo l’ho
capito solo dopo, pretendere che una persona entri nella logica della
condivisione, se prima non ha cominciato ad osservare i proprio processi interiori
in un clima accogliente in cui si richiamano le persone ad osservare il proprio
giudizio e ad accogliere tutto quello che sentono e che vivono all'interno del
cerchio. Ed i gruppi di condivisione, per come posso averli compresi in
questi anni, puntano proprio a quello.
Siamo troppo disabituati a vivere condividendo le nostre
cose materiali, o il nostro tempo con gli altri: per rincominciare ad entrare
nella mentalità della condivisione c’è necessità di ripartire da un livello più
sottile, il livello delle proprie emozioni, sensazioni e anche dei propri
pensieri.
La cosa più emozionante, nella costituzione del gruppo di
condivisione di Milano, è stato l’osservarne la formazione. C’è stato qualcuno che ha
aderito subito, acriticamente. Alcuni ci hanno messo un po’ di più, ma ne hanno
colto il valore dopo pochi incontri. Altri ancora hanno transitato sempre un
po’ lontani dal fulcro di gravità, come pianeti lontani che però non si
staccavano mai, e rimanevano lì, in osservazione, e a volte riuscivano anche a
nutrirsi dell’energia del cerchio.
Durante i primi incontri ho da subito sentito una grande
forza che in qualche modo faceva sì che le cose accadessero. Questo gruppo
aveva tante connotazioni diverse perché ogni partecipante aveva una storia
diversa e proveniva da un angolo diverso di questa città. Già dopo le prime sedute si è venuto a formare uno “zoccolo
duro” di persone che poi hanno fatto in modo che gli incontri del gruppo
andassero avanti fino a Giugno senza alcuna interruzione e con mai meno di 4
persone.
Gli incontri sono andati avanti con costanza, si sentiva
verso la fine il senso di appartenenza delle persone al cerchio, cosa a mio
parere fondamentale per costruire la fiducia che sta alla base dell’aprirsi
agli altri. Anche l’energia del gruppo è cresciuta. Ho avuto diversi feedback
in cui mi è stato riportato quanto fosse stato utile incontrarsi e quanto
queste pratiche così semplici, ma che arrivano all'essenziale della struttura
dei rapporti, possano rinforzare o ri-accendere qualcosa che è già dentro alle
persone, e che nel momento in cui queste se ne accorgono, trovano la via maestra
per la comprensione di cos’è che unisce tutte le persone del mondo. Quando
arrivano a questa piccola, ma immensa consapevolezza, le persone si aprono al
cambiamento e alla condivisione.
ilmolinari
Ringraziamenti
Ringrazio davvero i fratelli incontrati in Brasile per quello che mi hanno insegnato, nella loro semplicità
Ringrazio tutta la gente meravigliosa che fa o che ha fatto parte del primo cerchio partito a Milano.
Per qualsiasi informazione riguardante il Cerchio di Condivisione di Milano cliccate qui.
http://www.ombelicodelmondo.net/cerchio-di-condivisione/
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